da “La Voce del Popolo” di Fiume
di Helena Labus Bačić
Chiacchierata con l’attrice, scrittrice e poetessa vincitrice del premio «Osvaldo Ramous» per la poesia in dialetto al Concorso d’arte e cultura «Istria Nobilissima»
Elvia Nacinovich non ha bisogno di presentazioni. Nota e apprezzata per la sua brillante carriera di attrice del Dramma Italiano, del quale è stata per decenni una delle figure di spicco, parallelamente ha nutrito anche il suo amore per la scrittura e la poesia, soprattutto quella in dialetto bumbaro, parlato nella sua amata Dignano.
Noi l’abbiamo raggiunta per un’intervista in occasione dell’ultimo premio, tra i numerosi dei quali è stata finora insignita al Concorso d’arte e cultura “Istria Nobilissima”: il premio “Osvaldo Ramous” per la poesia in dialetto nella categoria Letteratura per “Doute le fimene ch’i soin stada” (Tutte le donne che sono stata) con la motivazione che recita “ritmo poetico che scandisce immagini del passato e del presente di forte introspezione. L’uso del dialetto istrioto fa da corollario alla poesia del senso della vita”. Durante una piacevolissima chiacchierata, la nostra interlocutrice ci ha conquistato con la sua personalità e il suo approccio attivo verso la vita, in cui ora, che è in pensione, una grande fetta di tempo la occupa la sua famiglia, ma in cui non trascura le attività che la rendono felice.
“Non è la prima volta che vinco un premio a ‘Istria Nobilissima’, ma è sempre un’emozione ed è importante perché è bello sapere che c’è qualcuno che apprezza quello che facciamo – ci ha riferito –. Negli anni ho partecipato sia con le poesie in lingua italiana che in dialetto, con alcuni lavori teatrali per bambini, in seguito messi in scena dal Dramma Italiano, e l’anno scorso con un racconto in dialetto bumbaro. Ho iniziato a scrivere già da bambina. In una delle poesie autobiografiche che ho inviato al concorso i protagonisti sono due membri del Dramma Italiano dell’epoca – lo scrittore, poeta e giornalista Alessandro Damiani (che un tempo faceva anche l’attore) e Lucilla Verdirosi. Qui devo precisare che lo spiritus movens di tutte le attività a Dignano quando ero bambina era la mia insegnante Anita Forlani, che guidava diverse attività extrascolastiche in Comunità. A scuola ci sentivamo in famiglia, era la nostra seconda casa, per cui noi stavamo a scuola praticamente a tempo pieno perché avevamo tante attività extrascolastiche”.
Incontro con gli attori del DI
“Io frequentavo il gruppo letterario. Una volta, Anita Forlani organizzò un incontro con alcuni attori del Dramma Italiano. In quell’occasione recitai la mia prima poesia, credo di aver avuto nove o dieci anni. Me la ricordo ancora, era in italiano ed era intitolata ‘La goccia d’acqua’. Loro rimasero molto colpiti e Damiani mi scrisse una ‘critica’ assieme a una dedica che mi sono portata dietro per anni, in quanto per me era il primo riconoscimento. All’epoca ero timidissima e preferivo esprimermi attraverso la scrittura, anche se amavo il teatro da sempre. Nella sua ‘critica’, Damiani scrisse che avevo il germe dell’ironia, mentre Lucilla Verdirosi mi disse che un giorno sarei potuta venire a lavorare con loro. Queste parole, con le quali probabilmente aveva voluto farmi un complimento, mi sono rimaste impresse e, come ho scritto nella poesia, sono diventate il mio destino. Uno degli episodi che ricordo con tanto affetto è anche l’incontro con Gianni Rodari, che con poche parole dava tanti suggerimenti. Tutto questo per dire che mi sono sempre occupata di scrittura, poi il teatro ha preso il sopravvento, mi sono sposata e ho avuto dei figli. Non è che non mi venisse l’ispirazione, ma siccome mi veniva nei momenti meno opportuni – più precisamente mentre spolveravo, che per me è il lavoro più antipatico –, io la scambiavo per pigrizia e la bandivo. Ci sono stati così anni in cui non ho scritto, poi con il tempo ripresi, sia in lingua italiana che in dialetto bumbaro.
Quando ero bambina, questo dialetto lo parlavano soltanto le donne anziane tra di loro. Poteva succedere che mia nonna parlasse qualche volta in dialetto con mia madre, ma mai con me. Di conseguenza, da bambina pensavo che questa fosse una lingua per vecchi. Ma attenzione, una volta non li chiamavamo anziani o persone di terza età per addolcire, no. I vecchi li chiamavamo vecchi, però questo termine non aveva un senso dispregiativo. Il vecchio non era da rottamare, era da ascoltare, da rispettare e da esso bisognava assorbire. Anche quando queste persone parlavano tra di loro sentivi che le loro parole avevano un peso. Credevo quindi che quella lingua io l’avrei potuta parlare da vecchia. Questo mi è rimasto dentro e ho riscoperto questo dialetto come un vestito prezioso che trovi in soffitta, tutto polveroso e strappato, ma c’è qualche gioiello qua e là e ti piacerebbe indossarlo. Vedi che è della tua taglia e te lo provi e ti si apre un mondo, ti aggiunge una nuova prospettiva, ti si allargano gli orizzonti e invece di viaggiare su una monorotaia viaggi su dei binari paralleli che ti danno la stabilità, la sicurezza e l’equilibrio. Se dovessi leggere questo dialetto antico che non ho praticamente mai parlato, sarebbe per me una lingua straniera. Io me le sento sempre parlato da mia nonna”.
Siccome non ha mai parlato attivamente il dialetto bumbaro, ha avuto difficoltà a trovare le parole per esprimere determinati concetti?
“Quella è diventata una sfida perché se la lingua non si usa si dimenticano certe parole. Inoltre, siccome la lingua è viva e si sviluppa include anche termini per cose che in passato non c’erano. Per certi concetti attuali io qualche volta mi invento le parole. Adoro i vocabolari, le parole mi piacciono, e per me questi volumi sono a volte più avvincenti di un romanzo. Esiste un vocabolario di Dalla Zonca dignanese-italiano, ma non esiste il contrario, italiano-dignanese, per cui quando mi manca una parola non è che la posso trovare in questo libro. Mi sforzo allora a pensare come potrebbe essere e vado a verificare se esiste. Facendo questa operazione trovo altre parole, certe mi si stampano in mente, diventano protagoniste dei giorni successivi, si impongono e cercano un posto dove andarsi a situare. È un lavorio continuo e quando finalmente lo imbrocco… che soddisfazione!”
Come nasce una poesia?
“La verità è che prima faccio le cose istintivamente e poi cerco di spiegarle. Le poesie nascono al mattino, probabilmente perché la poesia e l’arte in generale è fatta di materiale inconsistente, che ha un po’ la stessa sostanza dei sogni. Nel mio caso c’è dell’ironia, ma essa è un qualcosa che aiuta a combattere e a sopravvivere, a vincere le frustrazioni e il senso d’impotenza che mi prende quando guardo il telegiornale e dico ‘ma come, la soluzione è lì, perché non la vedono, perché non vogliono vederla?’. Certi temi stanno continuamente dentro di me e poi li elaboro e vengono fuori in un’altra maniera. L’ironia è uno strumento per sopravvivere. Se non possiamo fare niente per cambiare le cose, possiamo soltanto riderci su.
Una volta mi è venuta al mattino una poesia come sotto dettatura, che parlava di un marinaio. A volte mi sembra che mi si siano spuntate delle antenne che captano le cose, che arrivano così pronte, pulite e fatte che non mi sembrano nemmeno mie. Quasi mi vergogno di dire che questa è una mia poesia perché la sento nell’aria. Ci sono altre, invece, che costruisco, come un artigiano. Per questa costruzione il dialetto è utile perché mi costringe alla sintesi”.
In una delle sue poesie commenta l’aspetto triste delle calli di Dignano, dove non ci sono più negozi e botteghe di artigiani.
“Faccio un viaggio nel passato per trovare nell’antico quello che è vivo, con cui rivestire il presente per tutelarmi, per aiutarmi, per disinnescare la paura che mi fa il presente e dirgli ‘Non ho paura di te, non sei nuovo, sei già stato, sei un prodotto del passato e anche tu passerai. E io sopravvivrò’”.
Com’è la Dignano di oggi rispetto a quella del passato e quale rapporto ha con Fiume? Come vede queste due città?
“Tutto cambia, ma Dignano, purtroppo, almeno come la vedo io, non è cambiata in meglio. Ogni volta che ritorno, e ci ritorno sempre più raramente, è come se mancasse qualcosa. Ma poi vengo a Fiume, in Corso, vedo che questo negozio è chiuso, quell’altro negozio è chiuso e capisco che le cose qui non sono tanto diverse. Amo Dignano in un modo diverso da come l’amavo quando ero una dignanese che viveva a Dignano. Quando me ne sono andata, per un amore più grande – il teatro – avevo deciso che non avrei mai sofferto di nostalgia, ma ovviamente questa non è una cosa che si può decidere. Un giorno te la trovi.
Comunque, per me è difficile parlare di nostalgia perché effettivamente mi sento a casa dappertutto e ciò dipende dalle persone con le quali vivo. Sono una zingara, una paesana cittadina del mondo, per cui il modo in cui mi sentirò in un posto dipende dalle persone che mi circondano. Oggi anche Fiume è la mia città”.
Anche se è in pensione, si occupa ancora di teatro. Ha qualche nuovo progetto in cantiere?
“Io sono sempre a disposizione. Ringrazio il direttore del DI Giulio Settimo che mi ha dato la possibilità di partecipare a quel bellissimo spettacolo che è stato ‘LockClown’. Il lavoro è bello non quando ci godo solo io, ma quando vedo che il pubblico gode e che gli piace. Questo è uno spettacolo che ha fatto centro ovunque. È piaciuto a tutti e le reazioni sono state molto gratificanti per noi che già durante le prove ci siamo divertiti molto. Ovviamente, abbiamo anche faticato perché per raggiungere la leggerezza ci vuole anche fatica e una bella intesa. E se la sintonia professionale con mio marito era scontata, poteva non essere altrettanto con Stefano Surian col quale collaboravamo per la prima volta. Invece si è trattato di un incontro fortunato, perché Stefano è un tesoro che, oltre ad avere tante qualità artistiche è anche modesto, che è una rarità. Senza parlare del regista Davide Calabrese, del musicista Anselmo Luisi, insomma, una collaborazione meravigliosa. L’ultima replica è andata in scena la scorsa estate a Gallesano, per cui comincio ad avere qualche crisi di astinenza. Ma se non mi chiamano, me ne farò una ragione. Ora ho uno splendido nipotino che mi riempie le giornate e posso dire di aver avuto molto dalla vita. Sono una donna felice”.
Che cosa vogliono dire per lei il dialetto e la poesia?
“Il dialetto è la nostra lingua madre e nessuno si ama come la propria lingua madre perché nulla ci permette di esprimerci come in questa lingua. Anche i silenzi, gli sguardi sono diversi quando parli in dialetto. Mentre scrivere una poesia, è una fuga, una consolazione, uno sfogo, una sorta di terapia. Ma è altrettanto terapeutico leggerle, perché ti suscita un senso di vicinanza, calore, la sensazione di non essere sola. Ti apre dei mondi. In altre parole la poesia è quella cosa che ti fa stare meglio anche quando non pensi di stare male”.
Doute le fimene ch’i soin stada
I iè fruougà al cor e oramai me manca al fià
a fòurgia da fa scuri sango in vene de carta
da fa reivà la bus feinta l’oultima feila
ma fein ch’a dura, nassi ancura e ancura,
a ꭍi cumo morsegà tuchi de eterneità.
E doute le fimene ch’i soin stada,
serve, rigeine, sasseine,
in pounta de peie o a culpi de scouria
me iò traversà l’anema
lassando ognidouna oun’impronta
e mei a gile al me grassie
la me riconossensa
par doute le volte ch’i ie squaià
al me dulour in le so lagreme,
parchei del so coraio e de la so sagissa
ꭍi impastada la me forsa,
par vime imparà a reidi
anca de lundi no sulo de dumènega.
Tutte le donne che sono stata: Ho consumato il cuore e ormai mi manca il fiato/a forza di far scorrere sangue in vene di carta/di far arrivare la voce fino all’ultima fila,/ma fin che dura, nascere ancora e ancora,/è come mordere pezzi di eternità/E tutte le donne che sono stata,/serve, regine, assassine,/in punta di piedi o a colpi di frusta/mi hanno attraversato l’anima/lasciando ognuna un’impronta/e io a loro il mio grazie/la mia riconoscenza/per tutte le volte che ho sciolto il mio dolore/nelle loro lacrime/perché del loro coraggio e della loro saggezza/è impastata la mia forza/per avermi insegnato a ridere/anche di lunedì non solo di domenica.